La famiglia è un microcosmo così stratificato che può creare dinamiche e sentimenti contrastanti che possono portare a odiare la propria famiglia.
Oggi mi sono scoperta a ragionare, senza neanche rendermene conto, sulla famiglia. Quell’istituzione al cui interno impariamo (o meglio: si presume che dovremmo imparare) a diventare uomini e donne ben inseriti nel contesto sociale.
A ben vedere, però, più che un’istituzione, la famiglia diventa un microcosmo (se non addirittura un universo, in taluni casi) che assorbe in sé tutto un bagaglio di storie, tradizioni, metodi educativi, buoni esempi, cattivi modelli e via dicendo. Come a dire: la tua famiglia è la somma di tutte le famiglie che l’hanno preceduta.
Essendo un microcosmo così stratificato, quindi, è inevitabile che all’interno della famiglia si creino delle dinamiche contrastanti che generano sentimenti contraddittori. Si può, in egual maniera, amare o odiare la propria famiglia.
Odiare la famiglia è espressione di un conflitto adolescenziale mai risolto
Senza troppi giri di parole: a volte odiare la propria famiglia significa odiare sé stessi. Siamo una parte organica della nostra famiglia, ne condividiamo i geni e nasciamo dalla sua carne, legati da un cordone ombelicale che a volte fa fatica ad essere reciso nonostante l’età adulta.
Ci sono casi in cui la famiglia si rende “complice” di quest’odio – che appare, quindi, del tutto motivato. Mi riferisco ai casi di violenza domestica, inadempienze genitoriali, maltrattamenti… Ci sono, poi, anche casi in cui la famiglia tende a chiudersi in sé stessa in maniera asfissiante. Si tratta di un atteggiamento con non permette ai figli di crescere all’interno della società, di socializzare, di conoscere una realtà differente rispetto a quella delle mura di casa. Ecco, allora, che i figli o, in alcuni casi i partner, possono sentirsi vittime di un carceriere che li priva della propria libertà. Si tratta, ovviamente, di una percezione distorta – ma sicuramente alimentata da un atteggiamento poco costruttivo e molto ambiguo.
Ma perché, allora, ho detto che odiare la propria famiglia significa non aver risolto i propri conflitti adolescenziali?
Tutti noi durante l’adolescenza abbiamo avuto scontri con i nostri genitori – è innegabile. Si tratta di una dinamica fondamentale per la crescita, perché plasma la nostra identità e ci permette di diventare adulti. Si tratta, ad ogni modo, spesso di contrasti lievi o che, comunque, si risolvo da soli man mano che cresciamo.
Ci sono casi, però, in cui questi dissapori, questi contrasti si impantanano e diventa difficile riuscire a superarli. Proprio come avviene con l’acqua che ristagna in un lavandino tappato: rimanere a fissare l’acqua nella speranza che venga risucchiata è inutile. Bisogna prendere un bicchiere iniziare a svuotare il lavandino – e poi stappare lo scarico.
Quando odiare la propria famiglia diventa un capro espiatorio
È questo che intendo per conflitto adolescenziale irrisolto: l’incapacità di superare la fase di formazione del sé e di crescere sentendosi realmente a proprio agio nella società. Una condizione, quest’ultima, di cui tendiamo ad incolpare i nostri genitori: «sono loro che non mi hanno aiutato a crescere! Sono loro la causa del mio disagio!». Un odio che riflette l’odio che nutriamo in noi stessi e che, in fin dei conti, ci serve da capro espiatorio per discolparci dalle nostre incapacità. Per non assumerci le nostre responsabilità. È un modo per non diventare mai davvero adulti.
Ecco, allora, che per non restare impantanati in questo lavandino tappato in cui si è trasformata parte della nostra vita c’è bisogno di un idraulico che liberi lo scarico. O anche, a seconda dei punti di vista, di qualcuno che ti porga un bicchiere e ti faccia vedere come rimuovere tutta l’acqua stagnante.