Fanno discutere le dichiarazioni del Ministro Valeria Fedeli sull’obbligo di andare a prendere i propri figli a scuola fino a 14 anni.
Negli ultimi giorni tutti i media stanno dando grande eco alle dichiarazioni del Ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli
relativamente all’obbligo, imposto per legge, dei genitori di andare a prendere i propri figli a scuola fino a 14 anni.
La problematica ha assunto questa importanza a seguito di una sentenza della Cassazione dello scorso maggio, in cui c’è stata una condanna per il Miur a seguito della morte di uno studente investito da uno scuolabus fuori dall’istituto quindici anni fa.
Secondo la legge, precisamente il codice penale, per i minori di quattordici anni è prevista la presunzione di assoluta incapacità. Pertanto coloro i quali sono delegati alla custodia del minore, nel caso in cui mancassero a questo dovere rischiano la reclusione da sei mesi a cinque anni. I reati sarebbero dunque mancato controllo per il docente e abbandono di minore per i genitori.
Al momento la situazione ha scatenato un polverone mediatico e un tam-tam tra i genitori, i quali si sono dovuti mobilitare per trovare una soluzione.
Un problema psicologico
Al di là del problema di natura gestionale (come fa un genitore che lavora ad essere ogni giorno alle 14 fuori da scuola?) il problema reale è di natura psicologica.
La società in cui viviamo è frutto di una serie di evoluzioni e di consapevolezza relativamente alla tutela dell’infanzia e al benessere dei bambini. Nonostante le diverse correnti di pensiero, c’è una visione comune nel mondo occidentale, rispetto a quali siano le tappe dello sviluppo di un bambino, e a quali siano le sue competenze e risorse in base all’età.
In nome della sicurezza e della tutela del minore sono state elaborate nel nostro Paese norme sempre più restrittive. Questa ultima puntualizzazione legale è forse il simbolo di quanto la legge e la realtà viaggino, talvolta, su due binari asincroni.
Le età coinvolte da questa notizia possono essere racchiuse nelle fasi di preadolescenza e adolescenza. Vi è consapevolezza da parte di “tecnici” e ministri rispetto a che cosa significhi oggi essere un preadolescente o un adolescente? Per quanto lo sviluppo cognitivo e fisico in questa fase d’età non proceda in modo correlato- talvolta la maturazione fisica precede di gran lunga quella mentale- è vero che mai come a questa età l’esperienza gioca un ruolo fondamentale.
Sperimentare le proprie responsabilità rappresenta un passaggio essenziale per conquistare una maggiore autonomia.
È vero, come dice il Ministro Fedeli, che l’autonomia può essere sperimentata al netto del percorso casa-scuola e scuola-casa, ma, di fatto, la vita scolastica rappresenta il fulcro della quotidianità dei ragazzi. La scuola non è quindi solo didattica, ma è fatta di relazioni sociali, di momenti di condivisione e di responsabilizzazione dentro e fuori l’edificio. Il compito scolastico non si esaurisce dunque con la didattica, ma anche, con l’educazione verso l’indipendenza.
Che percezione di autonomia e maturità può avere dunque un ragazzo che fino ai quattordici anni non può “provare” ad andare e tornare a scuola da solo? Ma, soprattutto, cosa succede nel momento in cui lo stesso minore dovrà confrontarsi con la scuola superiore, non sempre vicina a casa come la scuola secondaria, e dovrà cimentarsi con l’orientamento in una metropoli, con il prendere mezzi pubblici, con il percorrere tragitti anche molto lunghi, da solo?
Privare l’autonomia in nome della sicurezza e della legalità non è la soluzione.
La società che lamenta di avere troppi “bamboccioni” è la stessa che presume l’incapacità di un ragazzo di quattordici anni di percorrere il breve tragitto da scuola a casa. Una sorta di schizofrenia dell’età evolutiva, in cui si pretende che un ragazzo, ipertutelato e iperprotetto fino ad una certa età, possa in tempi rapidi apprendere ad essere autonomo, a separarsi in tempi rapidi dai genitori e ad essere definito adulto dai diciotto anni in poi.
Certo, con questo non si vuole stigmatizzare eccessivamente queste normative, ma porre un quesito più grande. Fino a che punto si parla di tutela e dove diventa una limitazione alla crescita?
La psicologia una risposta ce l’ha, forse la politica e la Legge ancora no.