Negli ultimi anni i media hanno dedicato sempre più spazio al tema della violenza sulle donne. I fatti di cronaca riportano quasi quotidianamente accadimenti riconducibili a violenza sulle donne, e chissà quanti casi analoghi rimangono sotterrati in un circolo vizioso di paura e di indifferenza.
Secondo i dati Istat del 2015, 6 milioni 788 mila donne hanno subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale, il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni: il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, il 5,4% forme più gravi di violenza sessuale come stupri e tentati stupri. Sono 652 mila le donne che hanno subìto stupri e 746 mila le vittime di tentati stupri..
Il carnefice è, per la maggior parte delle volte, all’interno delle mura domestiche. I partner attuali o ex, infatti, commettono le violenze più gravi. Il 62,7% degli stupri è commesso da un partner attuale o precedente.
Il modello ciclico della violenza sulle donne
Ricordando che la violenza e le forme di maltrattamento domestico vanno dalla violenza fisica, a quella sessuale a quella economica e psicologica, ci sono clinici che hanno individuato un vero e proprio schema ricorsivo nell’attuazione della molestia.
Secondo la psicologa americana Lenore Walker, il modello ciclico della violenza contro la donna nella coppia prevede fasi specifiche ed è considerato ancora oggi, a distanza di quasi quarant’anni, utile per spiegare le dinamiche della violenza.
Il primo passaggio di questo ciclo è denominato “fase di tensione”, durante il quale la violenza non si manifesta direttamente, ma in modo subdolo, attraverso un atteggiamento maggiormente passivo- aggressivo. In questo primo stadio predomina l’astio che aumenta la tensione nella coppia. Nel momento in cui la donna chiederà spiegazioni rispetto al malumore, l’uomo tendenzialmente rifiuterà la comunicazione, spingendo la compagna a non chiedere ulteriori spiegazioni per paura che scoppi la collera. La donna probabilmente sarà compiacente e inizierà a fare rinunce, sia nell’ambito sociale che personale.
Il secondo step prevede la fase di aggressione, ed è contraddistinta dall’ira: insulti, grida, minacce esplicite di aggressioni. Va precisato che, secondo numerose ricerche, raramente la rabbia è “cieca”. La dinamica dell’ira è come il raggiungimento di una sorta di catarsi, in cui il maltrattante è consapevole degli atti che sta compiendo, i quali scaturiscono dal rinforzamento del timore di perdere la propria compagna. Piccoli cambiamenti nella donna, come un’uscita con le amiche o un nuovo look, possono bastare per spingere questo tipo di uomini alla rabbia che già veniva “covata” da tempo.
Il terzo passaggio prevede invece le “scuse”. Promesse di cambiamento, pentimento e rammarico sono il copione messo in atto dal maltrattante, il cui bisogno esclusivo è quello di riappacificarsi al partner solo perché viene visto come oggetto e proprietà esclusiva. L’accettazione delle scuse spesso denota nella donna l’idea di sentirsi investite da una “missione salvifica” che restituisce loro un senso di importanza e di autorevolezza perso con l’umiliazione subìta.
Ed è così che arriva l’ultima fase, quella della “riconciliazione”, riassumibile con comportamenti molto dolci e premurosi da parte del maltrattante, che restituiscono alla donna l’idea di aver nuovamente a che fare con l’uomo di cui si erano innamorate.
Ma è solo il preludio di un nuovo ciclo di violenza.
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Gli “uomini che odiano le donne”
Nella dinamica dei maltrattamenti l’uomo può essere definito, talvolta con superficialità, come crudele e accecato dalla gelosia. Abbiamo visto che in realtà nella maggior parte dei casi si potrebbe sostenere che l’uomo sia consapevole di ciò che fa. I comportamenti violenti derivano infatti da profili psicologici di natura patologica.
Se l’uomo antisociale è il più violento, in quanto compie abusi sia dentro che fuori casa, il borderline è artefice del ciclo della violenza sopra descritta, di tipo ciclico. È come se fosse in un perpetuo “tira e molla” del tipo: posso stare senza te- sei un mio oggetto- in te rifletto la mia parte peggiore-ti maltratto- temo di perderti-mi scuso-ti maltratto ancora. In un continuum di maltrattamento da fisico a psicologico esiste anche l’uomo narcisista, protagonista di un vero e proprio mobbing verso la compagna, fatto da denigrazione e umiliazione.
La denuncia
Per la donna denunciare diventa difficile e pericoloso, seppur dal punto di vista legale si registra che stanno crescendo misure protettive rispetto a questo tipo di violenza. La donna da una parte può sentirsi responsabile e può sperare ogni volta in un cambiamento del compagno. In alcuni casi la partner perde la propria identità, si annulla e si isola, diventando come il proprio compagno desidera. Le famiglie, purtroppo, non sempre riescono ad essere d’aiuto.
Il perché di questa violenza
Le origini di questa violenza sono da ritrovare sia in aspetti fisiologici che ambientali. Una predisposizione alla violenza non basta per esplodere in età adulta, ma solitamente si abbina a incurie genitoriali e stili di attaccamento non sicuri, le cui ferite si portano avanti fino all’età adulta come micce pronte ad attivarsi e a esplodere nuovamente al primo segno di incuria. Anche la donna che vede il suo ruolo come “salvifico” ha nei suoi tratti comportamentali adulti una correlazione con l’accudimento ricevuto durante l’infanzia.
Non dimentichiamo, inoltre, il ruolo che purtroppo alcuni stereotipi di genere hanno in certe culture, tra cui la nostra. L’uomo viene associato a forza fisica, la donna etichettata come il “sesso debole”. Quello che oggi viene definito “femminicidio”, fino a quarant’anni fa poteva esser definito “delitto d’onore” ed era socialmente accettato. Questo non può che rafforzare l’idea che si tratti, anche e in modo impattante, di una questione culturale. La legge si è modificata nel tempo ma i tempi culturali faticano ad adeguarsi.
#NOALLAVIOLENZASULLEDONNE
Per quanto una problematica del genere possa sembrare lontano dalle nostre vite è importante che l’educazione verso il rispetto altrui parta proprio dall’infanzia. Parliamo di un’educazione emotiva basata sull’empatia che deve però partire da noi adulti e genitori. Solo quando ci sarà una vera e propria assunzione di responsabilità, in grado di superare alcuni stereotipi, potremo forse raccogliere i primi frutti e vivere in un mondo migliore rispetto a come l’abbiamo trovato.
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